Lunedì a Udine la direzione regionale del partito in cui la presidente chiederà un cambio di marcia. Grim verso la conferma, ma la minoranza potrebbe volere un rimpasto della direzione politica
di Mattia Pertoldi
Debora Serracchiani
UDINE. Debora Serracchiani ha deciso: il Pd ha bisogno di tornare all’antico se vuole riprendersi dalla scoppola rimediata alle amministrative – con la consegna di Trieste e Pordenone nelle mani del centrodestra – in vista delle regionali in programma fra meno di due anni.
Forte dell’appoggio incassato a Roma dal premier Matteo Renzi – che non ha toccato il suo ruolo di vicesegretaria nazionale –, adesso la presidente ha intenzione di replicare, pur plasmandolo sul locale, lo schema del Nazareno anche in Fvg.
E sarà lei per prima a inaugurare la nouvelle vague che ha intenzione di imprimere al Pd del Fvg a partire dalla direzione regionale in programma domani sera a Udine.
Antonella Grim, in altre parole, non si tocca almeno sino al referendum di ottobre – nonostante i mal di pancia manifestati da alcuni esponenti “dem” – anche perché l’attuale segretaria regionale è figlia, almeno formalmente, di una scelta unitaria di tutto il partito.
Defenestrarla in questo momento, dunque, non soltanto rappresenterebbe la dimostrazione palese, all’esterno, di un Pd tutt’altro che unito, ma porterebbe, inevitabilmente, a un congresso regionale che rischierebbe di finire in balia delle correnti.
No, Serracchiani non lo vuole e propone una ricetta diversa, per quanto classica. Il partito ha bisogno di tornare di più tra la gente, ad ascoltare i problemi, i malumori e le esigenze delle persone. Basta, quindi, a convegni e incontri dal sapore prettamente autoreferenziale – o quantomeno è prevista una forte limitazione – e più ascolto. Anche da parte della presidente, più che mai ben disposta a sacrificare una parte dei suoi impegni, siano pure istituzionali, in nome di una maggiore presenza sul territorio.
Basterà per placare i dissapori interni? Difficile dirlo, ma da quello che si mormora la minoranza “non renziana” del Pd vorrebbe qualcosa in più e sta pensando all’elaborazione di un documento da presentare domani in cui chiedere ai vertici del partito una svolta più decisa.
Un ritorno alle promesse con cui Grim era stata eletta e «non mantenute del tutto» – confessa un “dem” – anche a costo di sacrificare una parte, più o meno significativa, di segreteria regionale come segno di discontinuità. Perché, è il ragionamento che filtra in alcuni ambienti del Pd, non si può «fare finta di niente dopo la sconfitta se non vogliamo che anche la corsa per la Regione si trasformi in un bagno di sangue».
La direzione di domani arriva a una settimana esatta da quella nazionale in cui Renzi non ha innestato alcuna marcia indietro a tal punto che l’eco delle sue parole non si è ancora spento, nemmeno in Fvg.
La linea del premier, infatti, ha incassato il placet del capogruppo alla Camera Ettore Rosato e del numero due al Senato Alessandro Maran. «Non è stato tutto perfetto, anzi si può sempre migliorare – ha detto Rosato –, ma abbiamo avviato una stagione di riforme e crescita di cui dovremmo andare tutti più orgogliosi e di cui il referendum sarà tappa fondamentale per restituire alla politica il suo significato più alto. Per farlo dovremo essere comunità, mettendo da parte le sterili polemiche che hanno caratterizzato certi momenti della nostra storia».
E se per Maran «l’intervento del presidente del Consiglio ha riportato l’attenzione sulle vere problematiche che dobbiamo affrontare come il post-Brexit, il sistema bancario e soprattutto il referendum costituzionale», una sonora bocciatura è arrivata dai senatori Lodovico Sonego e Carlo Pegorer. «Renzi è rimasto sulle sue posizioni – ha detto l’eletto pordenonese –, ma prima o dopo, che piaccia o meno, dovrà fare i conti con le sollecitazioni che arrivano dal Paese e in Parlamento». Duro, infine, Pegorer.
«Abbiamo assistito a un racconto – ha concluso – che purtroppo non corrisponde alla realtà italiana. Una narrazione in cui, in estrema sintesi, si fa finta di niente, come se il campanello d’allarme ricevuto dalle ultime elezioni non fosse mai suonato, come se 600 mila insegnanti che scioperano non significassero nulla o come, ancora, non interessi il fatto che milioni di italiani non possano permettersi le cure sanitarie».
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10 luglio 2016