Lite Serracchiani-Parisi sul referendum. Moretti attacca Bersani su Monfalcone
di Marco Ballico e Giulio Garau
Debora Serracchiani con Matteo Renzi
TRIESTE. «Avere una come Debora è un ben di Dio». È il 30 gennaio 2013. Pierluigi Bersani, segretario del Pd, è a Trieste a firmare il patto per il rilancio della specialità. Lui, aspirante premier. Lei, Debora, candidata alla Regione. Bersani dice proprio così: «Ben di Dio».
E per chi non avesse capito, un attimo dopo aggiunge: «Basta guardarla, ha una marcia in più». Deve essere cambiato il mondo se tre anni e mezzo dopo i due firmatari di quel patto, zeppo di annunci di collaborazione, finiscono per parlarsi a distanza, e non sono complimenti, proprio no. Stavolta Bersani, il pensiero è al flop elettorale a Monfalcone, dice: «Sberla storica».
E Serracchiani ribatte: «Nel Pd si lavora e si dovrebbe sempre lavorare per l’unità, mai per dividere». Sono successe davvero tante cose da quell’inizio 2013 perché oggi che Debora fa la vice Renzi e Pierluigi è il principale contestatore del renzismo dentro il Pd, basta la sconfitta nella “piccola” Monfalcone per scatenare la polemica.
Conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, del clima tesissimo tra i dem a poco meno di un mese dal D-day del referendum sulla riforma costituzionale, l’appuntamento in cui Serracchiani voterà Sì e Bersani, a meno di colpi di scena, ribadirà il suo No.
Sul tema referendario, ieri mattina, la presidente della Regione ha discusso in tv, a Mattino 5, con Stefano Parisi, il candidato sindaco sconfitto a Milano. Botta e risposta in particolare sul bicameralismo da superare per Serracchiani e sul Senato delle Regioni con competenze «non chiare» per Parisi.
«Sono 30 anni che non è mai l’ora della riforma, ora si può votare per cambiare il Paese», l’estremo appello di Serracchiani, l’ennesimo a favore del Sì prima, durante e dopo le batoste di Ronchi e Monfalcone, mai diventate la priorità, non in questa fase politica.
E intanto Bersani restava sulla sua linea, nessuna intenzione di cambiarla. Inutile che Renzi accusi la minoranza Pd e il fronte del No di voler dare una spallata al governo, il pensiero dell’ex segretario in replica al presidente del Consiglio, perché «il governo non c’entrava prima e non c’entra adesso».
E poi ai microfoni di Agorà, sollecitato a un commento sul “fuori fuori” gridato alla Leopolda e alla rassicurazione di Renzi di non voler buttare fuori nessuno: «Bontà sua, non so come farebbe…». Il problema, prosegue Bersani, «è che, senza dirgli “fuori fuori”, c’è un sacco di nostra gente che se ne va. Mettiamo l’orecchio a terra e rendiamoci conto che un problema c’è e non si risolve con queste arroganze». Ma dopo il referendum che succede? «Io voglio credere che anche quello che sto facendo io, che stanno facendo alcuni di noi, è per tenere agganciata una parte non irrilevante di un mondo del Pd e del centrosinistra che non è convinto».
«Separati in casa», riassume Sergio Cofferati, già fuori dal partito da un anno e mezzo. «Non succederà nulla. Bersani continuerà a dire che non va via nemmeno con l’esercito, e gli altri faranno lo stesso», profetizza l’ex leader Cgil convinto che non ci sarà alcuna scissione, che non accadrà nulla fino al congresso e che l’unico che si troverebbe in una situazione «delicata» in caso di vittoria del Sì è Massimo D’Alema: «La sua è una posizione oggettivamente più esposta».
Il de profundis lo recita però sin d’ora Emanuale Macaluso, storico dirigente del Pd. Vinca il Sì o vinca il No, il Pd «perderà in qualsiasi caso perché un partito è una comunità e se non c’è più la comunità non c’è più il partito». Intervistato da Repubblica, detto che il “fuori fuori” «è un’indecenza», Macaluso spiega su Renzi: «Il segretario di un partito non può essere divisivo. Renzi, a mio avviso, ha un deficit politico.
Non capisce che in questa fase lo sforzo deve essere inclusivo. Invece di usare parole pacate dicendo a Bersani che sta sbagliando, alla Leopolda ha sollecitato la reazione di parte della platea». L’espulsione dei dissidenti? «La escludo. Ma il clima che si è creato renderà impossibile la convivenza, a prescindere da chi vinca il 4 dicembre».
A rivolgersi direttamente a Bersani è anche il monfalconese Diego Moretti, capogruppo Pd in Consiglio regionale. «Ha anche il coraggio di rimproverare Renzi e Serracchiani per la sconfitta di Monfalcone? Ma se sanno tutti che lì il Pd è sempre stato governato e guidato da bersaniani doc!».
Quanto alla sconfitta subita domenica, Moretti svela un retroscena. Racconta di essere andato di persona nel maggio dello scorso anno da Silvia Altran, per chiederle di farsi da parte dal momento che in città si sentiva un clima «poco favorevole» al centrosinistra. Tutto, però, si è rivelato inutile. «Ha ragione Giorgio Brandolin dunque – prosegue Moretti – quando sostiene che “l’ambizione di qualcuno invece del passo indietro richiesto, ci ha portato allo sfascio”.
Detto questo Altran non può diventare un capro espiatorio. Il tema è il Pd isontino che ha sbagliato, e mi ci metto dentro pure io. E non si può nemmeno scaricare le colpe sulla Regione o su Renzi. Qui si è votato per il Comune. Non so se è necessario chiedere ora dimissioni di massa, quello che so è che ci sarà bisogno di tutti, e di nuove idee e programmi per i prossimi appuntamenti elettorali».
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09 novembre 2016
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